Chávez, il profeta tropicale
Milioni di venezuelani piangono la prematura scomparsa di Hugo Chávez e uno si chiede se è possibile che tanta gente, in gran parte povera, si possa sbagliare. Non per piangere la morte di un essere umano ma per mostrare il rimpianto per un uomo politico concreto, un presidente, che ha guidato il paese dal 1999 accumulando danni che persisteranno in un futuro indefinito. In questi giorni molti di coloro che sono chiamati a un commento in tempo reale ricorrono al solito espediente: è troppo presto, la storia giudicherà. Ma la storia parlerà quando noi saremo morti ed è molto probabile che lo farà con la stessa ambiguità di quella dentro la quale siamo costretti oggi a districarci. Tanto per restare all’Italia di oggi non sorprende troppo, anche se risulta deprimente, ascoltare quasi un secolo dopo, giudizi di molta gente che, con apparente e indecente ponderazione, distingue tra fascismo “buono” e fascismo “cattivo”. E quindi, lasciando da parte la storia, non resta che cercare di capire fin da oggi con i mezzi più o meno precari di cui disponiamo.
C’è un’immagine di Chávez nella campagna elettorale del 1998 che, in qualche modo, prefigura allegoricamente quello che sarebbe venuto dopo. È lui che arringa la folla da un palco e il punto non è lui ma il palco: un’altissima piramide di cartapesta imbiancata che si innalza al centro di Caracas. Nella cuspide si è ricavato uno stretto spazio in cui c’è posto solo per il leader che si dirige alla folla con il naso in su da otto o dieci metri sotto. Se qualcuno voleva produrre una scenografia da sermone della montagna ci è riuscito perfettamente con l’aggiunta di un tocco de stravaganza tropicale. Da quell’altezza vertiginosa il leader solitario si dirige a una massa lontana di piccoli uomini e donne che ascoltano devotamente.
Risulterà meno simbolico negli anni successivi l’appoggio di Chávez a quanto autocrate gli riuscirà di trovare nel mondo capace di condividere con lui la stessa passione antiamericana: da Robert Mugabe a Mahmoud Ahmadinejad, da Fidel Castro a Saddam Hussein. Qualche tempo fa, nei giorni in cui la gioventù libica ed egiziana si lanciava alla strada contro le dittature dei loro paesi, pagando con sangue la volontà di rinnovamento, Chávez sentiva il bisogno di dichiarare la propria solidarietà a Hosni Mubarak e a Muammar Gaddafi oggetto, secondo lui, di una orchestrata aggressione imperialista. Per non parlare della dichiarata simpatia a Idi Amín e a Aleksander Lukashenko. E anche se Chávez non ha creato una dittatura comparabile a quelle dei suoi riferimenti globali, resta il fatto della ricerca incessante di cooperazione con quanto di meno democraticamente presentabile offrisse il mondo nel tentativo di ricostruire in nuove forme clima e cultura da guerra fredda. Da una parte il suo Socialismo del XXI secolo con ayatollah, populisti autoritari e dittatori di qualsiasi specie e dell’altra l’Impero. Una versione tropicale del Komintern del “terzo periodo”, quello del social-fascismo.
Chávez è nato da una famiglia di maestri di scuole elementari nelle pianure occidentali del suo paese e da lì ha iniziato un percorso culturale dominato da una rappresentazione primaria della storia del suo paese fatta di mitizzazione degli eroi dell’indipendenza (Simón Bolívar in primo luogo), della visione di un paese ricco ma impoverito da oligarchie colluse con l’imperialismo e di un moralismo in cui i mali del paese sembravano venire da un nazionalismo eternamente tradito. Mezze verità che nel tempo si sono coagulate attorno all’attesa dell’uomo del destino che riprende la spada di Bolívar come guida giustiziera e finisce nella convinzione di essere lui stesso l’uomo del destino. I problemi del paese si riducono al bisogno dell’uomo forte e carismatico la cui buona fede in rappresentanza del popolo fa del moralismo una specie di scudo contro la complessità e l’intreccio tenace tra arretratezza, polarizzazione sociale, clientelismo diffuso e bassa qualità delle istituzioni pubbliche. L’etica azzera la realtà e si autoassolve da qualsiasi errore che in suo nome si compia. Le due maggiori conseguenze sono state: la causa che si personifica nel leader e la visione di una ricchezza petrolifera che può garantire ricchezza per tutti a condizione di essere meglio distribuita. E quando i problemi rivelano essere più testardi delle semplificazioni moralistiche c’è sempre la possibilità di attribuire le colpe al capitalismo, all’imperialismo e a tutto quanto possa essere letto come cospirazione internazionale. Le conseguenze sono state l’indebolimento dello stato e della sua credibilità sociale e una economia a pezzi, squilibrata e incapace de garantire livelli sostenibili di benessere oltre i limiti di un assistenzialismo clientelare.
Il moralismo, una specie di teologia secolare, autoassolve e crea una realtà ideologica più forte della realtà stessa. In un articolo del 1955 nella rivista Sur di Buenos Aires, Jorge Luis Borges, descriveva, a proposito del peronismo, le due realtà intrecciate di “obbrobrio” e di “scempiaggine” e concludeva:
Samuel Johnson osservò in difesa di Shakespeare che gli spettatori di una tragedia non credono di trovarsi ad Alessandria durante il primo atto e a Roma nel secondo, ma accondiscendono a favore della finzione. Paradossalmente, le menzogne della dittatura [peronista] non erano né credute né misconosciute; appartenevano a un piano intermedio e il loro proposito era coprire o giustificare realtà sordide o atroci.[1]
Non si può parlare di dittatura nel caso del regime chavista (anche se questo sarà il suo probabile sbocco), ma Borges ci aiuta a capire l’ambiguità venezuelana tra volontà dichiarata di combattere democraticamente la povertà e il clientelismo e la demagogia in cui questo tentativo fu avvolto. Che oggi le autorità venezuelane dichiarino di voler imbalsamare (nel miglior stile egiziano marxista leninista) il corpo del comandante non fa che prolungare nel tempo i fumi tossici di un misticismo laico destinato, nelle intenzioni, a santificare un tentativo fallito di coniugare lotta alla povertà e democrazia nella ventata di volontarismo, personalismo culturalmente arcaico e demagogia.
Torniamo alla fine del secolo scorso, al 1998. Dopo il suo tentativo fallito di colpo di stato del 1992, attorno al tenente colonnello Chávez si costruisce una immagine di eroismo anti sistema. La cella in cui fu imprigionato due anni diventa meta di pellegrinaggi e poco a poco il militare diventa il simbolo di un futuro libero di miseria e corruzione bloccato da quello che in Italia si chiamerebbero i poteri forti. Il momento del riscatto arriva con le elezioni del 1998. Il paese era sfinito, i due principali partiti, che governavano alternativamente da 40 anni, avevano perso gran parte della loro legittimità con la repressione brutale dei moti del 1989, quando di fronte alle proteste per la politica di austerità del governo appena insediato di Carlos Andrés Pérez, esercito, polizia e guardia nazionale erano entrati nei quartieri popolari di Caracas producendo centinaia di morti e migliaia di feriti. Tra 1989 e 1998 il tasso di povertà era passato dal 44 al 58% della popolazione; il PIL pro capita si trovava grosso modo allo stesso livello dell’inizio degli anni 50 e il sentimento di antipolitica si erano estesi a tutto il paese come una nuvola carica di tempesta. Per arginare lo scollamento drammatico tra partiti e popolazione, ai vecchi partiti, divenuti impresentabili, non venne in mente niente di meglio che candidare alla presidenza Irene Sáez, la Miss Universo venezuelana del 1981. E così l’antico tenente colonnello golpista arrivò al potere. E qui comincia l’era chavista che dominerà il paese fino ad oggi y sabrá Dios per quanto tempo ancora. La prima iniziativa è convocare a una nuova assemblea costituente il cui scopo centrale è rafforzare i poteri dell’esecutivo sugli altri poteri dello stato e, soprattutto, il potere discrezionale del proprio presidente. Da allora Chávez ha vinto tre elezioni presidenziali con successive riforme costituzionali che, secondo le sue parole, gli avrebbero permesso restare al potere fino al 2031. L’ultima vittoria è quella di fine 2012 che inaugura un nuovo periodo presidenziale che non inizierà a causa della malattia che lo porta alla morte. Nel 2006 vince con 63% dei voti, nel 2012, al terzo mandato, con 55% e allo stesso tempo vince le elezioni a governatore in 20 dei 23 stati che costituiscono il Venezuela.
Si instaura nel paese una “mania plebiscitaria”.[2] Il presidente ha bisogno di essere continuamente confermato nella sua popolarità in una eterna campagna elettorale in cui lo stato interviene con tutte le sue forze a sostegno di Chávez. Gli oppositori sono oggetto di continui insulti e aggressioni che fanno di loro i rappresentanti dell’imperialismo, del fascismo e quant’altro serva allo scopo. Il candidato oppositore nel 2012, rappresentante di una opposizione finalmente unificata (di destra e di sinistra), può dirsi fortunato quando nei suoi comizi più o meno oceanici è definito da Chávez, maiale e fascista. La spesa pubblica aumenta significativamente in prossimità di ogni turno elettorale e nei nove mesi precedenti alle elezioni del 2012 aumenta a 40 miliardi di dollari contro i 27 miliardi dello stesso periodo nell’anno precedente. A questo serve il petrolio: a finanziare le ambizioni un nuovo autocrate, che questa volta si dice di sinistra.
La nuova Costituzione contempla il referendum revocatorio e quando, nel 2004, l’opposizione riesce a raccogliere tre milioni di firme per attivarlo, Chávez sconcerta tutti con una mossa sorprendente e di dubbia legalità: fa mettere in Internet i nomi di questi tre milioni di venezuelani indicandoli come nemici della patria, con i conseguenti rischi di ostracismo e di perdita del lavoro per quelli di loro che sono impiegati pubblici.
Appena giunto al potere con la nuova Costituzione si lancia nel 2000 il Plan Bolívar soprattutto diretto alla costruzione di case popolari. L’amministrazione di un’ingente quantità di risorse è messa in mano dell’esercito e da subito scoppiano ripetuti scandali su malversazione di fondi e arricchimenti inspiegabili da parte dell’alta ufficialità legata a Chávez. Dopo il golpe (fallito) contro Chávez del 2002, il governo lancia una serie di programmi a favore dei settori più poveri della società che saranno conosciuti come Misiones. In generale, l’idea non è sbagliata, si tratta di evitare le strettoie burocratiche e convogliare l’intervento pubblico in forma diretta verso i settori di popolazione che soffrono miseria e emarginazione. Tra i molti programmi che si succederanno da lì in poi spiccano due che avranno indubbi benefici: Barrio adentro e Mercal.
Il primo di questi programmi si dirige all’assistenza medica di una parte della società normalmente senza accesso ai servizi di salute e convoglia migliaia di medici cubani che retribuiscono così le grosse forniture di petrolio che vanno all’isola in forma virtualmente gratuita. Inutile segnalare le proteste corporative dei medici venezuelani fino ad allora olimpicamente indifferenti alle condizioni di salute del grosso della popolazione. Si calcola che i beneficiari saranno circa quattro milioni di persone. Il secondo programma, Mercal, inaugurato nel 2003, dopo i grandi scioperi di quell’anno, porta nelle zone piú povere del paese negozi incaricati di distribuire alimenti a prezzi sussidiati. Ma qui sono necessarie due osservazioni. Gli imprenditori legati al regime affiggono alle confezioni di prodotti alimentari etichette che inneggiano alla benevolenza del nuovo regime “revolucionario” e, inoltre, grande parte dei centri Mercal sono installati in zone governate da uomini legati al governo di Chávez.[3] Per le altre missioni sará anche peggio dal punto di vista dell’uso clientelare per appoggiare autorità legate al regime e per la opacità nell’amministrazione dei fondi. Stessa storia con i consigli municipali con i quali il regime promuove la partecipazione popolare nell’amministrazione locale, un’iniziativa, poi caduta nel declino, in cui la partecipazione democratica si limita ai seguaci di Chávez invece che estendersi all’insieme della società civile.[4]
I dati ufficiali relativi alla riduzione della povertà sono discutibili anche se una riduzione quasi sicuramente si è registrata nel corso del primo decennio del secolo. Resta il problema di sapere quanta parte di questo successo si sia dovuto alle varie iniziative del regime di Chávez e quanta parte al fatto che negli anni in questione il prezzo del petrolio si è triplicato in un paese in cui il 94% delle entrate di divisa si deve alle esportazioni petrolifere. Nel corso della sua intera storia il Venezuela non aveva mai visto un boom petrolifero delle dimensioni recenti. Resta il fatto che, secondo dati della Banca centrale venezuelana, tra il 2000 e il 2005 la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi è aumentata invece di diminuire con un indice di Gini che passa da 44 a 48.[5]
Se nella qualità democratica delle istituzioni e in certa misura nella società, l’era Chávez non ha fatto registrare progressi sostenibili nel lungo periodo, è nell’economia che il quadro è chiaramente fallimentare. L’ondata di nazionalizzazioni (siderurgia, telecomunicazioni, elettricità, ecc.) accelerata dal 2007 non ha apportato un’aggiunta di efficienza e di capacità di generare nuova occupazione. Le importazioni (con un significativo componente di beni di consumo di lusso) si sono moltiplicate mentre, nonostante le grandi entrate della rendita petrolifera, il debito esterno è aumentato tra il 2003 e il 2012 del 150% (contro un aumento del 40% nell’insieme dell’America) allo stesso tempo in cui la fuga di capitali diveniva cronica. Secondo dati della Cepal (Commissione economica per l’America latina dell’ONU) gli investimenti esteri si sono virtualmente bloccati mentre i trasferimenti netti di risorse (differenza tra entrate di capitali e pagamenti di interessi e profitti) passano da un segno meno di 9 miliardi di dollari nel 2003 a un segno meno di 29 miliardi nel 2012.[6] Nessun settore dell’economia ha mostrato negli anni passati significativi passi avanti mentre settori strategici come la produzione agricola, il petrolio e l’alluminio registrano importanti retrocessi. In un paese che importa tre quarti del proprio consumo alimentare, alcuni beni essenziali registrano oggi la carestia più grave dal 2008 e tra di essi zucchero, farina, pollo e olio. Sempre secondo dati della Cepal i salari medi reali sono nel 2012 bloccati ai livelli del 2003. Nell’ultimo decennio l’inflazione ha viaggiato tra il 20 ed il 30% con l’aggiunta di un forte deficit di bilancio (8,5%) e un mercato nero del dollaro che gli assegna un valore tre-quattro volte inferiore al cambio ufficiale.[7] E per finire con i dati economici, il piano di lungo periodo del 2005 fissava per l’attualità una produzione petrolifera di 5,8 milioni di barili al giorno. Oggi appena si superano i 3 milioni di barili. E così il paese che si stima disponga della seconda riserva mondiale di idrocarburi è attualmente l’11° produttore mondiale.
Ma il dato piú imbarazzante della revolución bolivariana è quello relativo alla violenza, che negli ultimi anni colloca il paese tra i piú violenti dell’America latina e del mondo. Secondo l’Observatorio Venezolano de Violencia (OVV), corroborati per gli anni immediatamente anteriori al 2012 dall’ Instituto Nacional de Estadísticas, il tasso di omicidi nel 2012 è di 73 ogni 100 mila abitanti, circa tre volte di piú rispetto ai paesi piú violenti della regione. In Messico e Brasile il tasso di omicidi oscilla tra 23 e 24 raggiungendo il 33 in Colombia.[8] 96% di questi omicidi resta impunito e la maggioranza delle vittime proviene dai settori piú poveri della società venezuelana. Nello studio di Latinobarómetro del 2012, per il 61% dell’opinione pubblica venezuelana il principale problema del paese è la delinquenza, la quota piú alta tra i paesi latinoamericani ed il 73% manifesta avere poca o nessuna fiducia nella polizia che, nel corso del 2012, ha visto un poliziotto ammazzato al giorno.[9]
È di fronte a questi scenari che la grandeur diplomática del regime di Chávez mostra tutta la sua assurdità teatrale: dai 400 mila barili di petrolio al giorno quasi regalati ai regimi latinoamericani amici (soprattutto a Cuba) agli accordi di cooperazione con l’Iran di Ahmadinejad. Qualche tempo fa si inaugurò un volo diretto Caracas-Teheran che evidentemente aveva due obiettivi: mettere un dito nell’occhio agli Stati Uniti e mostrare al mondo l’ampio respiro delle ambizioni geopolitiche del caudillo tropicale. La scenografia, come la piramide menzionata all’inizio, prende il sopravvento sulla sostanza. Un volo diretto Caracas-Teherán inutile che, naturalmente, non è mai stato attivato come le industrie venezuelane-iraniane per produrre automobili e trattori che non hanno mai prodotto niente.[10] Una diplomazia delle apparenze, per la platea interna, per riempire i notiziari di regime e per produrre un’immagine del Venezuela come potenza mondiale condotta da un leader audace e capace di sfidare l’imperialismo.
Ma la stravaganza di un leader che produce miscele sorprendenti di iniziative sociali con grossa carica di clientelismo e di giochi diplomatici insostanziali ma di forte impatto mediatico si perde di fronte all’offensiva contra l’organizzazione autonoma dei lavoratori nel suo proprio paese. Citiamo il periodico venezuelano Tal Cual, diretto dall’ex guerrigliero Teodoro Petkoff, una delle personalità più lucide della sinistra del suo paese:
L’indebolimento dell’attività sindacale ha avuto in Venezuela una causa fondamentale: un governo che si definisce rivoluzionario e che, ripetendo gli errori del socialismo reale, non può sottrarsi alla tentazione di mettere i sindacati sotto il suo controllo.[11]
Dal 2000 Hugo Chávez
ha eroso progressivamente la separazione dei poteri dello stato e la loro
autonomia nominando i suoi fedeli, fuori da ogni criterio meritocratico e di
rispetto per l’autonomia istituzionale, sia alla Corte suprema che al Consiglio
elettorale. Una sola scena sarà sufficiente a indicare lo stile. Nell’inaugurazione
dell’anno giudiziario, i giudici della Corte suprema, in piedi, cantano “Uh,
ah, Chávez no se va” mentre lui, che assiste alla scena, sorride soddisfatto.
Forse è inutile aggiungere che gli stipendi della Corte suprema, che erano già alti
prima di Chávez, sono aumentati in modo stratosferico. Nel numero citato, il
periodico Tal Cual commenta: la Corte
Suprema si è suicidata per non essere assassinata.
[1]. Jorge Luis Borges en Sur (1931-1980), Emecé, Buenos Aires 1999, p.57.
[2]. Xavier Reyes Matheus, “Venezuela: el totalitarismo paródico”, Cuadernos de Pensamiento Político, n. 23, 2009, p. 194.
[3]. Michael Penfold-Becerra, “Clientelism and social funds: evidence from Chávez’s misiones”, Latin American Politics and Society, vol. 49, n. 4, 2007, p. 74.
[4]. V. Kirk A. Hawkins, “Who mobilizes? Participation democracy in Chávez’s Bolivarian revolution”, Latin American Politics and Society, vol. 52, n. 3, 2010, pp. 55-6.
[5]. Cfr. Francisco Rodríguez, “An empty revolution: the unfulfilled promises of Hugo Chávez”, Foreign Affairs, vol. 87, n. 2, 2008, p. 53.
[6]. Cepal, Balance Preliminar de la economía latinoamericana, Santiago de Chile 2012.
[7]. The Economist, 23 febbraio 2013.
[8]. Dati riportati dall’agenzia Efe-Caracas, 29 Dicembre 2012.
[9]. Latinobarómetro, La seguridad ciudadana, el problema principal de América latina, Lima 9 maggio 2012.
[10]. V. Joshua Kucera, “What is Hugo Chávez up to?”, Wilson Quarterly, primavera 2011.
[11]. Tal Cual, 7 marzo 2013.
Publicado en En italiano