Ascesa e caduta del riformismo in America latina
La precarietà delle spiegazioni del presente
Il tema qui è la sinistra postrivoluzionaria che dall’inizio di questo secolo arriva attraverso regolari processi elettorali al governo di alcuni paesi del Cono Sud americano. Come sempre, gli sviluppi imprevisti della realtà politica fanno sorgere più domande di quelle a cui è possibile rispondere. Il presente è un tempo intrattabilmente complesso dove si è condannati alla propria inadeguatezza di fronte alla realtà che cambia, alla precarietà della propria comprensione. Ma è anche il territorio mutante da cui non è possibile sfuggire. Ogni spiegazione può essere, ed è probabile che sia, inadeguata, ma non si può evitare di formularla. E quindi il presente -e la sinistra al governo nel Cono Sud è un tema proprio dell’attualità- condanna l’osservatore a una condizione a metà strada tra due speculari vizi professionali, quello del giornalista come notaio di fatti che appena si solidificano in una visione d’insieme si dissolvono in nuove complessità e quello del filosofo della storia che costruisce metastorie per sfuggire alla vertigine di una molteplicità mai del tutto compresa e men che meno domata.
Già non era ovvia la spiegazione del successo delle sinistre riformatrici nel Cono Sud dall’inizio del secolo (perché il Cono Sud e non la Colombia o il Messico? Perché in Bolivia, Ecuador e Venezuela è arrivata al governo una sinistra con un ethos ibrido tra rivoluzione e riforma con antichi riflessi populisti?), ed è oggi ugualmente sconcertante l’esaurirsi della spinta (sia interna che esterna, ossia elettorale) di questa stessa sinistra prima che si compissero due decenni dall’inizio del suo apparire alla soglia del potere politico. Un tramonto imprevisto dopo un’alba inaspettata. Ciò che è un fatto compiuto in Brasile e una prospettiva realistica nel corto-medio periodo sia cileno che uruguaiano. Con scellerata associazione, mentre spunta l’alba, Mario Cavaradossi si prepara a morire. Fuori da metafora: se era un sogno non svanì per sempre, ciò che non toglie la sensazione di un’occasione che non è stata colta in molte delle possibilità che resteranno latenti fino alla prossima indefinita occasione.
Una sinistra postrivoluzionaria
Nel secolo scorso la sinistra latinoamericana è stata attraversata da tre grandi correnti di idee, culture e pratiche politiche variamente intrecciate. In sintesi grossolana, anarchia (in versione mutualistica o anarcosindacalista), comunismo (nelle varianti staliniste, trotskiste, maoiste, ecc.) e guerriglia: anch’essa articolata in una molteplice tassonomia storica. La guerriglia della Sierra Maestra, le Farc colombiane o Sendero Luminoso in Perù appartengono allo stesso genere ma certamente non alla stessa specie. A parte un populismo variamente di sinistra: da Lázaro Cárdenas a Jorge Eliécer Gaitán fino alla sua versione militare con Juan Velazco Alvarado.
Ma, lasciando a un lato l’arcipelago populista, la rivoluzione è sempre stata la stella polare come indicazione di un nuovo inizio più o meno assoluto assoluto della storia. Dalla fine del secolo questa visione (o quanto di essa restava precariamente ancora in piedi per abitudine, inerzia o per coerenza con sé stessi nonostante il tempo) è divenuta subitamente storia. Qualcosa che ha a che fare più con la memoria o la nostalgia che con le difficili scelte del presente. La rivoluzione, come conquista del potere da parte di una avanguardia illuminata, ha esaurito la sua capacità di produrre passioni o capacità di mobilitazione. Resta alle spalle un incomodo fantasma, non ancora del tutto svanito, di una profezia laica che, come eticità autoritaria, vedeva le società regionali in forma positivistica, come terreno di un gioco di ingegneria sociale, e la storia mondiale come una eterna cospirazione imperialista. Troppo spesso in nome dell’aderenza materialistica alla realtà si aprirono le porte in America Latina (e non solo) a visioni mistiche di redenzione sociale. E non causa sorpresa che vari esponenti di quella che a suo tempo fu la novità della teologia della liberazione siano divenuti, con il passo del tempo e la lenta incrostazione di uno stanco realismo rivoluzionario, paladini di regimi manifestamente totalitari, come la Cuba castrista.
Anche in America Latina -terra di continuità di polarizzazione sociale e cattiva qualità istituzionale (tra corruzione endemica, robuste clientele e dubbia legittimazione sociale)- con il nuovo secolo alcuni cambiamenti nella sinistra hanno assunto un aspetto travolgente. Tra la Bibbia e il Gilgameš sumerico, la metafora adeguata è il diluvio universale che ha fatto sparire dall’orizzonte gli antichi profili del comunismo e della guerriglia, senza considerare l’anarchia che da queste parti cominciò la sua lenta agonia circa un secolo fa. Cosa resta? Due soggetti principali, tutti e due, allo stesso tempo, vecchi e nuovi: un socialismo riformista quasi sempre anemico e un populismo ciclicamente esuberante. A proposito di quest’ultimo la novità sta nell’accentuazione di un carattere discorsivamente di sinistra che era quasi del tutto assente nelle forme “classiche” del populismo regionale (da Getulio Vargas a Juan Domingo Perón); la tradizione, in cambio, si conserva, quanto meno nei casi attuali del Venezuela e della Bolivia, nella volontà di permanenza illimitata al potere da parte del capo provvidenziale, incarnazione morale del popolo, e nel disinteresse verso la costruzione di istituzioni pubbliche indipendenti dall’abbraccio asfissiante del leader. Ha certo interesse annotare al margine che questo rinato populismo radicale latinoamericano, che per vie traverse si ricongiunge con il filone presuntamente marxista-leninista della versione cubana (a sua volta mescolanza inedita di vecchio populismo russo, caudillismo ottocentesco e bolscevismo tropicale), trova una risonanza in forze non necessariamente marginali della politica europea dei giorni nostri. Il caso di Podemos in Spagna è esempio scontato. Sconcerto e ansia di fronte a una globalizzazione senza destino prevedibile prende le forme culturali della nostalgia verso certezze sconfitte nella storia recente. La ricerca del miracolo anti-sistema che fu propria della lunga stagione comunista (in America Latina e fuori) evidentemente non si è del tutto conclusa anche se le antiche vesti ideologiche, in larga misura, sono state dismesse. Il gatto è scomparso ma ne resta il sorriso o forse già solo il ricordo di un sorriso.
La vera novità latinoamericana di questi anni è il socialismo democratico che, soprattutto nel Cono Sud, ha creato negli ultimi tempi un proprio tragitto, poi dissolto, verso il governo. Siamo di fronte a un fenomeno politico tardivo nel senso che mentre in Europa il socialismo è il corpo di culture e esperienze di organizzazione sociale che precede l’insorgere politico del comunismo nel primo dopoguerra, in America Latina è una esperienza in gran parte recente. Da queste parti, a differenza dell’Europa, il comunismo sorge su un corpo previo molto più anarchico che socialista. La regione non ha avuto nella sua storia dalla fine dell’800 che scarsissime (e più intellettuali che politiche) figure omologabili a quelle che, come Filippo Turati, Hjialmar Branting, August Bebel o Leon Blum, esprimevano una cultura e, allo stesso tempo, importanti esperienze di organizzazione sociale e politica dei lavoratori. Lo scarso sviluppo di una forte classe operaia, la potenza del messaggio sovietico e i riflessi aristocratico-autoritari delle vecchie èlite latinoamericane hanno contribuito a dare un carattere di antagonismo messianico alle lotte sociali delle sinistre regionali nel corso del 900. Ed è qui la novità di questo inizio secolo: lo spuntare di un socialismo che, fuori da reminiscenze della rivoluzione come nuovo inizio assoluto della storia, sembra riprender il filo interrotto (e comunque debolissimo) nel passato che cercava una sintesi (anche se inesorabilmente conflittuale) tra liberalismo politico e socialismo, tra sviluppo tecnologico ed equità. Niente di ciò che accadde nel fronte socialista nella Germania di fine 800 o nella Svezia e Danimarca dagli anni 30 del secolo scorso fu possibile in America Latina. La (fragile) novità di questo inizio secolo latinoamericano sta appunto nella apparizione, con un secolo di ritardo, di una esperienza che in altre parti ha prodotto società alla frontiera mondiale dell’efficacia economica, il benessere collettivo e la credibilità istituzionale. Di fronte a una cultura di socialismo pluralista, il positivismo autoritario della versione marxista leninista è stata un evidente fallimento storico.
Tre storie. L’ascesa
Definiamo i contorni di tempo e spazio. In Cile Ricardo Lagos assume la presidenza nel 2000, in Brasile Luis Ignacio da Silva (Lula) lo fa nel 2003 e nel 2005 Tabaré Vázquez in Uruguay. (Sembra un’età geologica passata). I partiti politici che rendono possibile questa ondata di riformismo al potere nel Cono Sud incarnano storie molto diverse tra di loro. Mentre il Partito socialista cileno è un vecchio partito (tradizionalmente il più importante della sinistra del paese) nato nel 1933; il Partito del lavoro brasiliano nasce nel 1980, in piena dittatura militare, sull’onda del successo degli scioperi nella cintura industriale di San Paolo nel 1978-79. E già dal nome era evidente che il partito voleva evitare una connotazione esplicitamente ideologica dato il discredito di una sinistra brasiliana malata da tempo di settarismo. In Uruguay arriva al governo il Fronte ampio, una organizzazione che va dai comunisti ai cattolici di sinistra, nata nel 1971, un paio di anni prima dell’instaurazione del regime militare che controllerà il paese fino al 1985. La vittoria del Fronte ampio rompe il monopolio dei due maggiori partiti che si erano spartiti il potere durante 170 anni. Un tratto comune tra Uruguay e Brasile: la sinistra arrivata al governo ha avuto modo di mettersi a prova in esperienze previe di amministrazione locale. Il Fronte ampio governa Montevideo tre periodi prima di portare un suo rappresentante alla presidenza della repubblica e il Partito del lavoro brasiliano governa, per es., Porto Alegre dalla fine degli anni 80 inaugurando qui un’esperienza inedita di bilancio pubblico partecipato. In Cile questi precedenti di amministrazione locale non sono stati possibili per la dittatura di Pinochet sconfitta finalmente dal referendum del 1988 che negò al generale la rielezione per un periodo di otto anni. Ma queste differenze non devono oscurare un tratto comune a tutti e tre gli esperimenti riformistici: il riconoscimento della necessità di alleanze per andare oltre una politica testimoniale.
Cile, che in ordine di tempo è la prima vittoria del riformismo nel Cono Sud, è anche il luogo dove una politica di alleanze presentava maggiori difficoltà iniziali. Nonostante il tempo trascorso, la memoria era ancora fresca sull’ostruzionismo sistematico della DC al governo socialista di Salvador Allende e l’appoggio di questo partito al colpo di stato delle forze armate nel settembre del 1973. Migliaia di morti durante il colpo di stato e la dittatura che ne seguì occupavano il solco che divideva gli eredi del partito socialista e la DC. Ma con il passo del tempo due cose erano cambiate: la vittoria al referendum del 1988 fu possibile grazie alla convergenza anti-Pinochet di socialisti, democristiani (e altri) e, dal 1990, i due partiti si alleano nella “Concertación de partidos por la democracia” che porta successivamente due democristiani, con appoggio socialista, alla presidenza tra il 1990 e il 2000. In quest’ultimo anno è eletto un socialista alla guida del paese, trent’anni dopo Salvador Allende, ma questa volta con sostegno democristiano. Il costo è stato altissimo ma i due maggiori partiti cileni hanno dolorosamente imparato a convivere e addirittura a condividere le responsabilità di governo a fronte di una società con forte presenza conversatrice. Al margine: nel referendum del 1988 i voti a favore di Pinochet arrivarono al 44%.
In Brasile l’appeasement che permette al Partito del lavoro di arrivare al governo e, dopo, governare il paese con la necessaria maggioranza parlamentare (fonte di una corruzione endemica che finirà per presentare il conto nel 2016) assume caratteristiche proprie. Pochi mesi prima delle elezioni di fine 2002 Lula scrive una lettera aperta ai brasiliani dichiarando la sua indisponibilità a politiche che possano rinfocolare l’inflazione, che ancora nel 1993 era arrivata al 2.500% con effetti devastanti sui percettori di salari e di altri redditi fissi. Tra gennaio e settembre del 2002 la svalutazione del Real era stata superiore al 50% e 19 miliardi di dollari erano usciti da paese. Bisognava calmare le acque per evitare che l’eventuale vittoria elettorale diventasse subito un rovescio economico tale da rendere ingovernabile il paese. Dopo la vittoria, il Partito del lavoro dovette allearsi in Parlamento, tra gli altri, con il PMDB, la macchina elettorale e clientelare più poderosa del Brasile, dominata da politici locali senza chiari profili ideologici e una fame insaziabile di commesse pubbliche e posti di lavoro da usare come merce di scambio nel mercato politico-elettorale sia locale che nazionale. Di passaggio: l’attuale presidente brasiliano, Michel Temer, è presidente di questo partito. Ma in un primo momento (en non solo) il Partito del lavoro evidentemente pensò che era meglio turarsi il naso e andare avanti invece di restare a testimoniare una opposizione impossibilitata a divenire governo.
Il Fronte ampio uruguaiano è un caso unico come federazione di partiti (di centro e di sinistra) che, pur mantenendo la propria identità, accettano la disciplina congiunta. Tabaré Vázquez è stato candidato perdente alla presidenza due volte prima della vittoria del 2004. E da allora ad oggi il FA ha mantenuto la presidenza del paese. Prima ancora, lo stesso Vázquez era stato sindaco di Montevideo (la metà della popolazione uruguayana) tra il 1990 e il 1994. Un municipio che da allora il partito non ha più perso. José Mujica, capo riconosciuto della maggiore corrente di sinistra del FA e che sarebbe divento poi presidente della repubblica (2009-2014) diceva: “Nel sogno del socialismo bisogna re-inventare il capitalismo e non convertire lo stato in padrone perché questo film l’abbiamo già visto”.
Un dato comune ai tre partiti è la percezione della globalizzazione come un fatto storico associato allo sviluppo dei mercati e della tecnologia e non a una qualche pretesa cospirazione imperialista. La maggiore permeabilità dei mercati nazionali dovuta alla riduzione dei costi di trasporto e comunicazione e alla diffusione di nuove tecnologie (con i conseguenti effetti sulla domanda di lavoro) hanno alterato irreversibilmente le condizioni della concorrenza e del mercato del lavoro sia a scala nazionale che internazionale. Si sono ridotti i margini di manovra nazionali forzando a standard minimi di efficienza produttiva e di efficacia (e credibilità) istituzionale per operare con una qualche possibilità di successo in mercati sempre più globali. In queste condizioni le promesse di miracoli sociali dietro l’angolo corrispondono più a una ricerca affannosa di facili consensi elettorali che alla cultura di un riformismo responsabile. Era inevitabile riconoscere (anche se non sempre lo si è detto con la necessaria chiarezza) che né la promessa marxista di alterare radicalmente le basi economiche delle società contemporanee né il miracolismo populista (su una redistribuzione sostenibile dei redditi senza accelerazione della crescita) erano diventati residui ingenui di un passato improvvisamente lontano. Al nuovo-vecchio arcipelago di povertà e classi medie non si poteva promettere il miracolo dietro l’angolo ma più prosaicamente un maggiore impegno circa le conseguenze sull’occupazione delle strategie di sviluppo, una probità amministrativa capace di rafforzare il senso di appartenenza a una collettività politica e il rafforzamento della loro voce nelle scelte politiche ed economiche.
Agli inizi del nuovo secolo la crisi economica aveva colpito duramente l’Uruguay preso in mezzo tra la svalutazione del Real brasiliano del 1999 e la crisi finanziaria argentina di fine dell’anno successivo. Ma nonostante le difficoltà in nessuno dei tre paesi in cui il riformismo è arrivato al governo si può parlare di una crisi sistemica (economica e politica) come quelle che portarono al governo nuovi leader di forte risonanza populista in Venezuela, Equador o Bolivia. Se confidiamo nelle stime di Transparency International, Brasile, Cile e Uruguay sono (con Costa Rica) i paesi latinoamericani con gli indicatori di percezione della corruzione meno negativi. Un indice che può essere usato come proxy di qualità istituzionale e, allo stesso tempo, come un indicatore della legittimazione sociale dello stato. In altri termini, il riformismo diventa possibile all’inizio del nuovo secolo dove i sistemi politico-istituzionali hanno la sufficiente legittimazione per garantire l’alternanza dei partiti al potere senza produrre crisi di governabilità. Corollario: il riformismo arriva al governo non solo per le proprie virtù e capacità di rinnovamento del discorso politico ma anche grazie alla qualità degli stati, comparativamente maggiore rispetto al resto dell’America latina.
Lagos, Lula e Vázquez non sono stati eletti per cambiare le fondamenta strutturali dei loro stati né per ribaltare in forma radicale le politiche economiche precedenti al loro arrivo al governo. Dopo la profonda crisi degli anni 80 del secolo scorso, a partire dal decennio successivo l’America latina riprende la crescita che si era interrotta e lo fa grazie alla maggiore inserzione nel commercio internazionale, al ritorno degli investimenti diretti esteri e alla grande domanda di materie prime proveniente soprattutto da Cina e India. In questo contesto, ai dirigenti riformisti si chiede di mantenere e accelerare la crescita economica previa riducendo povertà e disuguaglianza che la hanno accompagnata. Queste sono le sfide dei nuovi governi del Cono Sud. Ma continuare e accelerare la crescita richiedeva riconoscere vincoli globali oltre i quali fuga di capitali e inflazione avrebbero reso impossibile ogni prospettiva di sviluppo. Bisognava mostrare responsabilità evitando squilibri fiscali insostenibili mentre si sperimentavano forme inedite per combattere emarginazione, squilibri territoriali e nuove forme di insicurezza collettiva.
Le politiche
Una premessa: Cile, Brasile e Uruguay sono forti esportatori di materie prime e i nuovi governi di questi paesi entrano in carica mentre è in atto un boom dei prezzi internazionali delle materie prime da cui ricevono un forte vento in poppa. Vento che cambierà direzione dalla metà del decennio successivo. Nel contesto internazionale favorevole dei primi tempi i governi si fanno carico delle loro responsabilità all’interno di due assunzioni generali che costituiscono un non detto che definisce l’azione governativa. Prima assunzione: non è possibile contrastare povertà e disuguaglianza aprendo una acuta conflittualità tra élite e basi sociali. Essere troppo vicini ai bisogni e inerzie delle élite (che hanno modellato nel lungo periodo economie dualistiche e società acutamente disuguali) significa rinunciare alla propria ragion d’essere, ma esserne troppo distanti può creare una conflittualità capace di tradursi in blocco degli investimenti, inflazione, scarsa creazione di occupazione, fuga di capitali e, in poche parole, ingovernabilità dell’economia. Ecco quindi la prima prova: costruire un sentiero, inevitabilmente irregolare, in cui da una parte c’è il rischio dell’irrilevanza e dall’altra quello di un disordine che, anche se con le migliori intenzioni, può ampliare l’area della povertà e della polarizzazione sociale.
La seconda assunzione, che in parte si deriva dalla prima, è che, soprattutto nelle condizioni latinoamericane, non esiste una rotta che porti verso un maggiore benessere collettivo senza una forte accelerazione della crescita economica. A meno di proporsi un obiettivo di socializzazione della povertà, allo stile cubano. Una prospettiva, quest’ultima, solo sostenibile nel lungo periodo al costo dell’instaurazione di un regime politico autoritario di contenuto più o meno plebiscitario. E cioè un autoritarismo benedetto periodicamente dall’approvazione di masse strettamente mobilizzate e organizzate dallo stato.
Ma escludendo una visione romantica per cui l’arretratezza è esclusivamente un problema di ripartizione della ricchezza, resta la questione delle priorità. Se sia meglio (più realistico e non amleticamente “più nobile”) puntare all’accelerazione economica per tentare dopo una migliore ripartizione della ricchezza o, al contrario, distribuire in forma più equitativa per rilanciare poi la crescita su basi sociali e di consumo più solide. Diciamo che esistono buone ragioni per credere che o i due obiettivi si dispiegano simultaneamente o nessuno dei due sarà perseguibile nel lungo periodo. Anche se non sufficiente, la crescita è condizione necessaria per aprire una possibilità all’estensione di nuovi diritti sociali e civili e per ridurre le resistenze al cambiamento. In sintesi, i nuovi governi riformisti avevano davanti a loro una solo prospettiva: costruire accordi sociali più ampi possibili in funzione di una accelerazione della crescita capace di produrre benefici importanti soprattutto ai settori più poveri della popolazione. Con quali politiche si cercò di adempiere questo scenario?
Cominciamo dal Brasile. Sono riconoscibili qui al meno tre gruppi di iniziative: Bolsa familia, programma di trasferimento condizionato di risorse alle famiglie più povere inaugurato nel 2003; PAC, Programma di accelerazione della crescita, introdotto nel 2007, per la modernizzazione delle infrastrutture e, in terzo luogo, l’espansione del credito al consumo delle famiglie più povere da parte della BNDES, Banca nazionale di sviluppo economico e sociale. Bolsa familia si dirige soprattutto ai nuclei famigliari poveri nelle campagne che ricevono un piccolo sussidio (che però può duplicare il reddito famigliare ex ante) a condizione che i figli continuino a frequentare la scuola e ad adempiere il programma ufficiale di vaccinazioni. Anche se si tratta probabilmente del maggior schema di assistenza di questo tipo al mondo, con 50 milioni di beneficiari (un quarto del totale della popolazione), rappresentava appena il 2,5% della spesa pubblica (a fronte del 20% destinato alle pensioni) e solo lo 0,5% del Prodotto interno lordo. Ciò che lascia intravedere la possibilità di interventi pubblici incluso più vigorosi. La gran maggioranza dei beneficiari del sussidio erano le madri di famiglia per ragioni facilmente immaginabili sulla loro maggiore affidabilità nell’uso del sussidio pubblico. Il PAC, inizialmente diretto dalla futura presidente Dilma Roussef, finanziava opere pubbliche nelle zone maggiormente depresse del paese concentrandosi in infrastrutture idriche, elettriche, strade e miglioramento delle favelas con l’impiego di mano d’opera del posto.
Oltre a ciò e all’estensione del credito pubblico a favore delle persone di minore reddito deve considerarsi una politica industriale attiva che attraverso imprese pubbliche o miste (come il fabbricante di aerei Embraer o come la petrolifera Petrobras) promuoveva il finanziamento all’innovazione tecnologica e il rafforzamento di reti nazionali di produttori di diverse dimensioni. Durante più di un decennio si sussidiò la costruzione di abitazioni popolari e si aumentò il salario minimo reale: 67% nel periodo 2003-10. Tra i venti esterni favorevoli e la fiducia degli investitori esteri sulle prospettive di allargamento del mercato interno, nelle sei maggiori aree metropolitane del paese, alla fine del secondo mandato di Lula, il tasso di disoccupazione era appena superiore al 5%. Secondo la Commissione economica per l’America latina delle Nazioni Unite la povertà toccava nel 2005 il 36,4% della popolazione brasiliana, ma nel 2012 si era ridotta al 18,6%. In termini assoluti, nel decennio seguente all’assunzione della presidenza da parte di Lula, i poveri si erano ridotti in 30 milioni. Un fatto senza precedenti anche se la differenza statistica tra essere poveri e non esserlo poteva essere solo di poche decine di dollari. Allo stesso tempo l’indice di Gini della distribuzione dei redditi era migliorato nonostante il Brasile seguisse come uno dei paesi di maggiore disuguaglianza al mondo. Praticamente tutti i settori della popolazione registrarono progressi significativi ma i più beneficiati risultarono essere gli abitanti delle regioni più povere del paese (specialmente il nordest), la popolazione rurale, i percettori di salario minimo e gli afrobrasiliani. Tutto bene dunque? Lasciamo alla prossima sezione il compito di mostrare che non era esattamente così.
L’amministrazione del presidente Lagos in Cile dagli inizi del nuovo secolo prende un po’ tutti di sorpresa iniziando negoziati con l’Unione Europea e gli Stati Uniti per la firma di accordi di libero commercio. Il paese arrivò ad avere ha più di 50 accordi di questo tipo e ad essere una delle economie più aperte del mondo. Nel primo decennio del secolo, con i due governi socialisti di Lagos e Bachelet il paese è riuscito a conservare un alto tasso di crescita ottenendo una migliore classificazione dagli istituti internazionali di qualificazione con un risparmio di parecchi milioni di dollari sul costo dei crediti esteri. Nel 2010 il Cile è stato il primo paese dell’America del sud ad essere ammesso all’OCSE. Durante la presidenza di Lagos si è estesa la scolarità obbligatoria a 12 anni, si è introdotto un sistema più ampio di assistenza sanitaria nonostante la dura opposizione di medici e assicurazioni private, si è esteso il sistema pensionistico, si è stabilito un programma di assicurazione contro la disoccupazione e si è attivato lo schema Chile Solidario (con una copertura del 10% della popolazione), un programma di sussidi condizionati come quello già descritto in Brasile. Con il successivo governo di Michelle Bachelet si sono introdotti sussidi alla contrattazione dei giovani e si sono rafforzati i programmi di abitazioni popolari. Dopo la parentesi del governo conservatore di Sebastián Piñeira (2010-14), il secondo governo di Bachelet annuncia nuove iniziative per ridurre le tasse universitarie e aumentare le tasse sugli utili d’impresa con la simultanea riduzione del carico impositivo sui redditi personali. Durante tutto l’arco dei governi della sinistra cilena la spesa pubblica in educazione e salute è aumentata significativamente come quota del Pil.
Nel primo decennio, tra elevata crescita economica e misure a favore dei settori tradizionalmente marginali, la povertà si è ridotta da 20 a 11% della popolazione anche se questo è accaduto con un terzo dei lavoratori in condizioni di informalità e una persistente polarizzazione dei redditi. Nel periodo in questione il Cile è stato uno dei tre paesi latinoamericani con maggiore crescita dei salari.
Qualche osservazione sull’Uruguay. L’esperienza riformista, iniziata nel 2005, ha in questo momento oltre un decennio e mezzo alle spalle e tre vittorie elettorali consecutive, prima con Tabaré Vázquez, poi con José Mujica e nuovamente con Vázquez alla fine del 2014. Questo piccolo paese tra il Brasile e l’Argentina è stato tradizionalmente alla avanguardia dei diritti civili in America latina in istruzione pubblica, voto femminile, legislazione del divorzio e, dalla fine del 2013, la legalizzazione della marihuana, primo paese latinoamericano ad approvare questa misura. Anche se, detto tra parentesi, quest’ultima misura non ha avuto la simpatia del ex presidente Vázquez che torna alla presidenza nel 2015 e che nel suo primo periodo si era opposto alla legge che introduceva in Uruguay il diritto all’aborto.
Anche qui si introduce uno schema di trasferimento condizionato di reddito a favore dei più poveri che dal 2008 prenderà il nome di Plan de Equidad. Si trattava di poco più di 50 dollari per famiglia (in un paese con un salario minimo di circa 250 dollari) che comunque rappresentavano una differenza non irrilevante di fronte all’assenza previa di aiuti pubblici. Lo schema supponeva inoltre servizi complementari di sostegno alimentare, assistenza sanitaria e di alloggio. Ma ugualmente importanti furono l’introduzione dell’imposta al reddito delle persone fisiche (fino ad allora incredibilmente inesistente) e il ritorno in vigore del Consiglio salariale tripartito creato nel 1943 e abolito nel 1990. Oltre all’introduzione di programmi di aiuti agli anziani, la consegna gratuita di computer portatili ai bambini delle scuole elementari e l’inserimento dei lavoratori rurali e domestici negli schemi di previdenza sociale. Come già registrato in Brasile e in Cile, la riduzione dell’incidenza della povertà è significativa e passa dal 34 all’11% tra il 2006 ed il 2014.
Il tramonto
Perché allora, nonostante i successi sia in termini di crescita economica che di benessere, la stagione dell’egemonia politica socialdemocratica nel Cono Sud è andata rapidamente verso il tramonto? Alcune ragioni valgono per i tre paesi nel loro insieme, altre sono specificamente nazionali e altre ancora sono avvolte nella foschia di comportamenti sociali mai del tutto espliciti né razionali. L’ex presidente cileno Ricardo Lagos segnala il paradosso del suo paese che ha conquistato i più alti livelli di libertà e di benessere della sua storia allo stesso in cui mostra una crisi di delegittimazione dei governi che hanno reso possibili questi risultati. In realtà, niente nuovo sotto il sole: alla conclusione degli otto anni di presidenza di Barack Obama, durante i quali sono stati creati 12 milioni di posti di lavoro, vince le elezioni presidenziali negli Stati Uniti un magnate immobiliare che raccoglie grandi consensi tra i lavoratori del suo paese.
Il dato generale dei tre paesi in questione (e dell’America latina nel suo complesso) è il rallentamento della crescita nel corso degli ultimi anni. L’economia latinoamericana che era cresciuta a un tasso medio del 4% nel 2010-2013 è caduta in stagnazione nel 2014-2016. E nei tre paesi del Cono Sud il caso peggiore è quello del Brasile dove nel 2015-2016 si è perso l’8% del Pil. In Cile e Uruguay negli ultimi tre anni la crescita è stata positiva ma a ritmi inferiori alla metà rispetto agli anni precedenti. La caduta dei prezzi internazionali delle materie prime è stato certamente il fattore di maggior peso nell’inversione delle tendenze precedenti. E da qui è venuta la contrazione degli investimenti esteri diretti, delle esportazioni e della spesa pubblica con il conseguente aumento della disoccupazione, specialmente in Brasile. A proposito di questo paese, secondo dati della CEPAL, la disoccupazione urbana nelle 20 regioni metropolitane era del 6% nel 2011 e ha raggiunto il 13% nel 2016. Restiamo in Brasile per registrare alcune delle circostanze che sull’onda di manifestazioni di protesta contro la corruzione, capitalizzate da una destra crescentemente insofferente contro la sinistra al governo, portarono finalmente alla destituzione della presidente Roussef in agosto 2016. Per confermare la forza della nuova corrente, nelle elezioni amministrative del novembre successivo il governante Partito del lavoro perse il 60% dei voti.
Una delle maggiori novità di questo partito dagli anni 80 del secolo scorso è stata la scelta di coinvolgere gli abitanti dei quartieri marginali nelle amministrazioni urbane controllate dal partito. La probità amministrativa e la partecipazione popolare nella definizione degli indirizzi della spesa pubblica contribuirono al prestigio del partito e certamente favorirono Lula nella sua scalata al Palazzo di Planalto. Ma niente di simile, in termini di partecipazione sociale alle riforme, accadde successivamente al livello del governo nazionale, né con Lula né con Roussef. Evidentemente passare dal municipio al paese intero supponeva difficoltà molto maggiori sia politiche che di ingegneria istituzionale. Ma il partito non sembrerebbe neanche aver provato a intraprendere questa sfida. E come questa, neanche altre, come la riforma politica in un paese in cui nel primo governo di Roussef c’erano 39 ministri per fare spazio alla molteplicità di partiti da vari dei quali dipendeva l’approvazione delle leggi proposte dall’esecutivo. Nelle elezioni presidenziali di fine 2014 contendevano 32 partiti: una frammentazione prodotto della molteplicità di interessi clientelari locali (con i corrispondenti effetti corruttivi) che la sinistra al governo non ha avuto il coraggio di affrontare. Allo stesso modo in cui non ha avuto il valore di affrontare l’annoso problema della concentrazione della terra in poche mani per timore alle reazioni avverse della poderosa agroindustria. Le ragioni del realismo condussero a tollerare (e addirittura a promuovere) una cultura della corruzione di cui si cominciarono a apprezzare le diramazioni fin dallo scandalo mensalão venuto alla luce dal 2005. Il Partito del lavoro dava uno stipendio ai deputati di vari partiti d’opposizione che favorivano l’iter parlamentare delle proposte di legge del governo. Concussione propria di un paese con una forte dispersione di potenti gruppi politici locali capaci di esercitare una vera e propria estorsione verso i governi nazionali. In sintesi, la sinistra brasiliana paga oggi la sua pavidità riformatrice e, finalmente, il proprio coinvolgimento in una politica fatta di scambio di favori, di contratti e posti pubblici pilotati. E la nemesi arriva con l’assunzione della presidenza da parte di Michel Temer, presidente del PMDB (massima espressione brasiliana di una politica clientelare endemicamente corrotta), che forma dalla fine del 2016 un governo composto da soli maschi, tutti loro anziani e conservatori. Un solo esempio: il ministro dell’agricoltura è uno dei principali produttori mondiali di soia e fu dichiarato anni fa nemico pubblico numero uno del medio ambiente da Greenpeace. L’ex presidente della Camera dei deputati (Eduardo Cunha), il principale promotore della destituzione di Roussef, è stato arrestato per disporre di conti svizzeri di origini sconosciute per 73 milioni di Euro. Anche se il peggio viene, in realtà, dalle accuse di corruzione rivolte dai pubblici ministeri allo stesso Lula, per decenni simbolo dell’onestà personale e senso di responsabilità istituzionale della sinistra brasiliana.
In Cile, alla conclusione del secondo mandato di Bachelet, il candidato presidenziale con maggiori possibilità nelle elezioni del novembre 2017 è l’imprenditore conservatore Sebastián Piñeira, già presidente nel 2010-2014. Anche qui oltre alla stanchezza fisiologica che produce negli elettori la stessa formula politica di governo e il dilagare di aspettative che restano, nonostante i successi, insoddisfatte, le proteste studentesche che esigono la gratuità dell’educazione universitaria si sono combinate con l’effetto deflagrante (che ha deteriorato, forse irreversibilmente, la percezione sociale positiva di Bachelet) associato agli scandali di corruzione che hanno toccato uno dei suoi figli.
Alla testa di una coalizione di partiti riformatori, i socialisti hanno mostrato l’esistenza di un cammino viabile verso miglioramenti sostantivi nelle condizioni di vita di ampi settori della popolazione. Dal 2000 al 2015 il Pil pro capite in Cile è aumentato in circa il 25% fino a rendere questo indicatore il più alto di tutta l’America latina. Nonostante questo la tradizionale e acuta polarizzazione dei redditi non sono stati intaccati in una misura che potesse dirsi apprezzabile. C’era bisogno qui –come negli altri due paesi- di iniziative complesse capaci di alterare le regole del gioco economico e sociale, mettendo fuori dalla legge, per esempio, l’esteso uso del lavoro in subappalto congiuntamente con le aziende subappaltanti che operano per evitare alle maggiori imprese i costi legali e previdenziali dei contratti legali. Oltre a ciò il paese aveva bisogno di modificare una fisiologia economica in cui le imprese più grandi e di maggiore produttività sono anche quelle che producono meno occupazione contribuendo in minor proporzione allo sviluppo del mercato interno. L’economia cilena, come quella degli altri due paesi, continua ad aver bisogno di una estesa rete di piccole e medie imprese produttive e con certa capacità innovativa che possa contribuire al superamento di una eterogeneità strutturale che frena gli impulsi di irradiazione all’insieme del sistema produttivo.
Come nel caso del Brasile, nonostante le promesse iniziali di attivare una democrazia più partecipativa, con la presidenza Bachelet non c’è stata nessuna novità significativa a questo proposito riaffermandosi così la separazione tra una politica riformista chiusa in sé stessa e nei suoi professionisti e una popolazione beneficiata ma non partecipe nelle decisioni governative e nella loro implementazione.
Come si è detto, a fine 2014 il Fronte ampio porta nuovamente Tabaré Vázquez, con il 54% dei voti, alla presidenza dell’Uruguay. Vari dei problemi visti nel caso del Brasile e del Cile sono presenti, in proporzioni particolari, anche qui. Di fronte alla riduzione dei prezzi internazionali di vari prodotti tradizionalmente esportati dall’Uruguay, alla contrazione degli investimenti esteri diretti e alla riduzione della crescita negli ultimi tre anni a un terzo di quella degli anni precedenti, il nuovo governo ha annunciato restrizioni salariali per i prossimi anni. E rivelando un maggiore dibattito all’interno del FA tutto il 2016 è stato occupato dalle discussioni interne sul bilancio pubblico. A peggiorare lo scenario il nuovo presidente ha annunciato la composizione del nuovo governo rivelando che 9 dei suoi tredici ministri provengono dal suo primo gabinetto (2005-2010) e che l’età media dei ministri è di 64 anni. E nessuna delle due circostanze sembrerebbe testimoniare a favore di una nuova spinta innovativa. Non sorprende quindi che il livello di approvazione di Tabaré Vázquez durante il primo anno del suo secondo mandato sia stato particolarmente basso. E anche qui, tra stanchezza e vuoti di capacità innovative, una stagione sembra volgere al termine.
Una conclusione provvisoria
Osservando le diverse esperienze del Cono Sud negli ultimi anni è inevitabile arrivare alla conclusione che l’assistenzialismo è necessario ma non sufficiente. Se la sinistra può avere (anche se non nell’immediato) un futuro in queste parti del mondo dovrà introdurre novità importanti non solo nella ripartizione della ricchezza ma anche nelle sue forme di produrla, superando dualismi strutturali tra imprese di alta e bassa produttività, tra campagne e città, tra lavoro formale e lavoro in nero oltre all’arduo compito di consolidare istituzioni efficaci e socialmente credibili senza le quali le riforme economiche difficilmente potranno considerarsi acquisite nel lungo periodo.
È vero che in AL non si può pretendere oggi di andare oltre il capitalismo ma è altrettanto vero che non ci si può adeguare a un capitalismo troppo spesso parassitario e lastrato da due tare di lunga durata come l’acuta disuguaglianza sociale e la bassa qualità dello stato. Per un periodo storico indefinitamente prolungato il problema centrale dell’America latina non sarà fuoriuscire dal capitalismo ma andare oltre l’arretratezza. La sinistra riformista al governo in questo inizio di secolo è stata più propensa a correggere le conseguenze sociali del funzionamento dell’economia che quello stesso funzionamento. Ed è evidente a questo proposito il carattere cogente del dilemma tra un bisogno di crescita economica, che richiede la collaborazione delle èlite, e un bisogno di riforma (per costruire basi più solide di sviluppo) che richiede alterare inerzie e privilegi di queste stesse èlite. La quadratura del circolo è ancora lontana anche se bisogna ammettere che in questo inizio secolo qualche passo avanti si è compiuto. La sinistra riformista ha dimostrato la sua responsabilità anche se non sempre né incorruttibilità né grande originalità progettuale. Il timore diffuso che l’originalità riformatrice potesse pagarsi in termini di instabilità non ha aiutato a sperimentare sentieri inesplorati.
Seminario sobre América Latina en el siglo XXI, Roma, Diciembre 2017
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